Recensione a “Un navigante senza bussola e senza stelle” della scrittrice e traduttrice Marina Caracciolo (2024)

Recensione a “Un navigante senza bussola e senza stelle” della scrittrice e traduttrice Marina Caracciolo (2024)


Lavinia Capogna, scrittrice, regista per proprio studio e pratica ma anche per tradizione famigliare (il padre era il regista Sergio Capogna e la madre la produttrice cinematografica Giuliana Scappino), poetessa  con al suo attivo numerose opere anche di narrativa e di saggistica, in questa raccolta di liriche del 2022 (che si chiude, tra l’altro, con la patina antica e dorata di un delizioso sonetto di Giulia Scappino Murena, la poetessa nonna dell’autrice) crea un vero e proprio gioiello in cui convergono – filtrati e rivissuti dalla sua personalissima voce poetica – i temi più importanti e insieme più suggestivi della poiésis di ogni tempo. Come in un crogiuolo in cui si fondono metalli preziosi, qui si intrecciano e si amalgamano il sentimento d’amore (vissuto, ricordato, reciproco o non corrisposto), le speranze, i dubbi, i rimpianti, il dolore, la morte, le memorie. 
Ecco, in particolare le memorie – in un arco temporale che abbraccia quarant’anni di vita (dagli anni Ottanta fino ai nostri giorni) – sono forse il principale filo conduttore di questi versi: tenui, delicati, dolcemente espressivi e immaginosi, senza vibrate proteste, senza squilibri, soffici come il velluto, senza certezze ma intrisi di possibili (o impossibili) speranze e di sogni. “Ci deve essere un luogo / dove sono custoditi / i giorni che sono andati, / i sorrisi smarriti, / le parole d’amore che / non abbiamo detto, / il vento di un giorno / di aprile. 
Sognante è pure la rappresentazione della morte: ingannevole idea / che ha attraversato / la mente / e che ci ha reso / profondamente infelici oppure Qualcosa dove sentirsi / a casa dopo un estenuante esilio? Non sappiamo – dice la poetessa – nulla di Dio / se non la voce / delle onde del mare / e il tremito / del nostro cuore. “Pioggia al cimitero”, per restare in tema, è un brano alquanto esteso che, in alcuni passi di grigia e brumosa malinconia, sembra ispirarsi al meraviglioso Lied “Auf dem Kirchhofe”, per voce e pianoforte (op. 105 n. 4) di Johannes Brahms, su testo del poeta tedesco Detlev von Liliencron.
C’è il rimpianto delle persone care scomparse, di un giovanile amore perduto, di un’amica lontana ma mai dimenticata, degli attimi belli, irripetibili della vita, a cui si vorrebbe tornare per rivivere anche per un solo momento quelle sensazioni dolci e inesprimibili. E c’è un giovane poeta che scrive versi d’amore appoggiato alla corteccia di un albero, e la luna – pallida assistente di tutti gli innamorati – lo guarda piena di compassione, sfiorandolo con la sua luce incantata.
E si fa pure strada, insinuandosi fra queste liriche, la voce acuta e sottile del dolore, della malattia, persistente come una spina in un fianco, con la sua amara e cedevole rassegnazione ammantata di una speranza vaga e indefinibile. Un dolore che è insieme il coraggio / di chi scorge / la silente luna / dagli ospedali / e l’alba / nei cortili polverosi.
Sempre la memoria torna ad annidarsi, come nei cassetti nascosti di un antico secretaire, nelle cianfrusaglie che nessuno tiene, nei vecchi ricami, nei colori scoloriti, oppure in un bacio che hai dimenticato, una stazione in un giorno d’inverno. 
La musica, il mito, la poesia (si veda la bellissima “Agli scrittori del Novecento”), l’amata Roma, i vagheggiati mari e tramonti del Sud, la magica Praga con la sua verde Moldava, il bosco di Fontainebleau ed altri luoghi del cuore: tutto concorre, in questa congerie di elementi reali e visionari ad un tempo, in una spontanea quanto perfetta armonia, a formare una sostanza viva e indelebile di cose sperate o accarezzate e tenute insieme sempre dal filo d’oro dei ricordi, nelle maglie finissime di una fitta rete nostalgica che mentre svela e illumina protegge dall’oblio. Una nostalgia che talora, tuttavia, è quasi pericolosa, illusoria come una figura identica ma rovesciata al di là di uno specchio: può serrare il cuore come l’infido laccio / di un cacciatore / che insegue un pettirosso.




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